Nello scorso mese di ottobre lo scrittore e divulgatore Daniele Zovi ha visitato il nostro Bosco. Parlare con lui, passeggiando sotto gli alberi, è stata un’esperienza unica ed emozionante. Dopo la visita ha scritto, per la rivista del CAI, il bellissimo articolo che potete leggere qui di seguito. Grazie, Daniele!
Il Bosco Pantano di Policoro in Basilicata
“Il crepuscolo regna sovrano in questo dedalo di alberi alti e decidui. Policoro ha la bellezza aggrovigliata di una palude tropicale”.
Di Norman Douglas avevo letto alcune descrizioni dei boschi della Sila, poi quest’anno a Policoro, non molto lontano da Matera, mi hanno fatto conoscere alcune pagine dello stesso autore dedicate al Bosco Pantano. Lui, con il suo Old Calabria e altri viaggiatori inglesi e tedeschi hanno descritto con toni vivacissimi e sorpresi l’Italia meridionale dell’inizio del secolo scorso: un mondo arcaico dove poco lontano dai paesi si incontrano “labirinti verdeggianti dove si può immaginare di essere in qualche primitiva regione del globo terrestre dove mai piede umano è penetrato”. Il Bosco Pantano c’è ancora, l’ho percorso in ottobre in lungo e in largo accompagnato da Antonio De Donato, un giovane naturalista e da Nicola Vallinoto, esperto di agricoltura, che mi hanno fatto cogliere ancora una volta il fascino dei boschi planiziali, cioè di quelle poche foreste di pianura scampate alle bonifiche dell’ultimo millennio. Sono formazioni rare perché da un paio di millenni l’uomo ha proceduto alla bonifica dei terreni paludosi e all’occupazione delle pianure costruendo le città più importanti e sviluppando l’agricoltura. Tutto questo a scapito del bosco. Queste aree in genere sono caratterizzate dalla presenza abbondante delle acque di fiumi e paludi, grazie alla quali costituiscono scrigni di vita lussureggiante, tesori naturalistici. Una di queste ricchezze qui a Policoro è forse quella che si vede meno: uno studio pubblicato nel 1986, riguardante solo i coleotteri, ha elencato 1823 specie, circa il 20% di quelli presenti in Italia, tra i quali la rara Rosalia alpina. Fino ai primi anni del secolo scorso la foresta occupava una superficie di 1600 ettari di bosco vero e proprio e 110 ettari di stagni che si sviluppavano fra il fiume Sinni e il fiume Agri. Come latifondo ha cambiato proprietari nel corso dei secoli: prima i Gesuiti, poi i principi Serra di Gerace e, infine la famiglia Berlingieri di Crotone. Il barone Giulio Berlingieri in qualche modo l’ha salvata dalla fine che hanno fatto altre foreste simili a questa, scomparse a seguito di bonifica. È successo non per una, se così si può dire, particolare sensibilità ambientale, ma perché il barone voleva avere un posto tutto suo per andare a caccia e portarci i suoi amici. Non è certo il primo bosco che si salva per questo motivo; solo per citare due esempi lo stesso hanno fatto i Savoia con San Rossore in Toscana o, lassù tra Polonia e Bielorussia, il generale nazista Hermann Göring con Bialowieza, un’antica foresta vergine dove ancora vivono i bisonti.
Con la riforma agraria del secolo scorso il Bosco Pantano è diventato di proprietà pubblica e una sessantina di anni fa, prima di venire sottoposto alla giusta protezione che merita, il bosco è stato percorso da tagli pesanti per ricavarne legname da opera: l’ontano venne impiegato a Bari nella costruzione di cofani funebri, l’olmo fu utilizzato nell’industria navale e il frassino per le rifiniture della Giardinetta prodotta dalla FIAT. Ebbene sì, alcune auto venivano costruite in parte con il legno. Ora è una Riserva Regionale Naturale Orientata, la caccia è vietata e si può visitare in santa pace. È quello che ho fatto e camminando lungo comodi sentieri ho attraversato molti dei 19 tipi di habitat che lo compongono, accompagnato dalle mie due guide, che ogni tanto interrogavo per sapere il nome di qualche pianta o per interpretare tracce misteriose. Così ho scoperto come scava l’istrice per raggiungere le radici di piante che più gli piacciono o come ama passeggiare la lontra per uscire dal fiume e raggiungere il mare. Abbiamo camminato a lungo tra il lentisco, il mirto, la fillirea e l’alloro che sprigionavano quel cocktail di odori tipico della macchia mediterranea, per finire in una radura dove svetta superba una farnia di un paio di secoli, sfuggita alla brama dell’uomo e che ora ha l’arduo compito di ripopolare la foresta. Dall’intrico verde svettavano pioppi, ontani, olmi, carpini, aceri campestri e frassini. Questi ultimi talvolta appaiono seccaginosi, soffrono l’abbassamento della falda che stentano a raggiungere con le radici. A breve, così mi ha assicurato il sindaco di Policoro, si partirà con un progetto per rimpinguare d’acqua quei terreni troppo prosciugati, utilizzando quella del canale scolmatore che la porta al mare. Durante la camminata si sono levati in volo aironi, garzette, uno sparviero e, indispettite, un paio di ghiandaie che aiuteranno la farnia nella distribuzione delle ghiande per la futura foresta.
Abbiamo attraversato un tunnel vegetale fatto di cannucce di palude per arrivare in un altro ambiente dove la sabbia e le dune sono coperte di giglio di mare, sparto, lentisco, rosmarino e la pianta che più mi affascina in questi habitat, il ginepro che per secoli resiste ai venti marini e resta abbarbicato a terreni ingrati. E poi il mare, dove attraccarono le navi dei fondatori di Policoro provenienti dalla Grecia e ora passeggiano i lupi, erano loro le tracce rettilinee, e le lontre, incerte tra l’acqua dolce e quella salata.
Daniele Zovi