“Il crepuscolo regna sovrano in questo dedalo di alberi alti e decidui… Policoro ha la bellezza aggrovigliata di una palude tropicale. Odori pungenti si levano dalle foglie marcescenti e dalla terra umida e quando ci si sia addentrati in quel labirinto verdeggiante si può anche immaginare di essere in qualche primitiva regione del globo terrestre dove mai piede umano è penetrato”
Così Norman Douglas agli inizi del secolo scorso nel libro intitolato “Old Calabria”, descriveva il Bosco Pantano. Ma non fu il primo a visitare una delle foreste più conosciute dell’epoca. La prima descrizione nota del bosco, risalente al 1780 circa, sembra essere quella di Richard de Saint-Non. Fu lui, insieme a D.Vivant Denon, a dare inizio ai viaggi di stranieri nell’Italia meridionale. Lo stupore che i due ebbero nel visitare l’area traspare dalle loro parole:
“Una foresta sacra… dominata dal silenzio e dall’oscurità misteriosa che regna sotto le immense querce vecchie come il mondo… popolata da una folla pacifica di animali e da ogni specie di selvaggina; dai cinghiali, dai daini, dai cervi, dai caprioli, per non parlare delle martore e degli scoiattoli di cui noi vedemmo anche una gran quantità passeggiare sulle nostre teste, di albero in albero… seguendo la foresta arrivammo sulle riva del Sinni (Siris), uno dei più grandi fiumi del Regno di Napoli “
Fino ai primi anni del secolo scorso la foresta occupava una superficie di 1600 ettari di bosco vero e proprio e 110 ettari di stagni che si sviluppavano fra il fiume Sinni e il fiume Agri. Rientrava nel vasto feudo di Policoro che appartenne prima ai Gesuiti, poi ai principi Serra di Gerace e, infine, dal 1887 alla famiglia Berlingieri di Crotone. Il barone Giulio Berlingieri si era riservato il diritto esclusivo di caccia nel Bosco Pantano; trascorreva la notte di San Silvestro in treno per “cominciare il suo nuovo anno nel suo bosco vicino ai suoi cinghiali”. La caccia si svolgeva a giorni alterni, per far riposare la muta di 60 cani, fino alla fine di marzo. Autorità e persone note in tutta Italia erano suoi ospiti nel castello e partecipavano con lui alle battute al cinghiale. Per la caccia il bosco veniva diviso in mene, porzioni di territorio delimitate da stradoni e altri confini. Si procedeva dalla mena più esterna fino alla mena Cesarella, la più interna, situata tra la ferrovia e il mare, nella quale vigeva il divieto di pascolo per lasciare gli animali indisturbati. Per i bracconieri, che si appostavano generalmente nella rivolta, sulla destra del Sinni, erano previste pene severe.
Latticini bufalini e liquirizia venivano prodotti nell’azienda del barone. Gli affittuari della ditta, i loro dipendenti e i coloni erano costretti a lavorare in un luogo “funestato dalla malaria… per le acque stagnanti e fetide… i poveri lavoratori, timidi sempre del miasma, si struggono nelle febbri palustri e, tra una pillola e l’altra di chinino, sognano una futura bonificazione di quelle terre” (Prospero Rondinelli).
Nel 1931 il Consorzio di Metaponto intraprese la bonifica idraulica del terriorio e nel 1950, con la Riforma Fondiaria, l’area venne liberata dal vincolo idrogeologico, espropriata e assegnata ai contadini. Iniziò cosi il taglio raso del bosco che si protrasse per quasi 10 anni e ne distrusse 1.000 ettari. Fu così che imponenti alberi, fonte di ispirazione per numerosi viaggiatori, riparo per numerosissime specie animali e cuore pulsante della comunità vegetale inziarono a cadere, uno dopo l’altro, sotto i colpi dell’accetta.
L’ontano venne inviato nella provincia di Bari e impiegato nella costruzione di cofani funebri, l’olmo fu utilizzato nell’industria navale e altre specie “pregiate” divennero mobili. La Fiat di Torino acquistò 3.000 metri cubi di frassino per le rifiniture della Giardinetta. Altre parti di olmo e frassino divennero traverse ferroviarie. La produzione della legna da ardere ammontò a circa 3 milioni di quintali.
In seguito ai tagli fu stimato che il suolo fosse coperto per il 45% da frassino, 30% da olmo, 15% da ontano e per il 10% da pioppo, quercia e altre specie.
Nel 1957 un grosso incendio divampò e, come riferisce Franco Tassi, “ridusse in poche ore tutto a cenere e carbone”.
Le ripercussioni della rimozione di una così ingente quantità di vegetazione non tardarono ad arrivare. Nella notte tra il 24 e il 25 Novembre 1959, pochi giorni dopo la prima festa degli alberi nel neonato Comune di Policoro, ci fu un alluvione. Il Sinni e l’Agri esondarono allagando un’area enorme. L’esito fu tragico e si concluse con la morte di una bambina, con danni ingenti alle colture e la perdita di numerosi animali.
Tra il 1960 e il 1980, soprattutto tra gli entomologi, iniziò a crescere la consapevolezza della rilevanza naturalistica che il relitto di quell’antica foresta rappresentava. Iniziarono ad essere condotte le prime ricerche e da subito fu documentata l’importanza dell’area dal punto di vista conservazionistico. A Gianni Gobbi bisogna riconoscere un grande contributo allo studio dell’entomofauna e all’istituzione della Riserva.
Nel 1999, dopo anni di opposizioni dei proprietari terrieri e lotte da parte di associazioni e cittadini, la Regione Basilicata, con una legge regionale, istituì la Riserva Naturale Regionale Orientata Bosco Pantano di Policoro. Ad oggi il bosco è anche una Z.P.S. (Zona di Protezione Speciale) e Z.S.C. (Zona speciale di Conservazione) e rientra all’interno dei siti Rete Natura 2000.
(Si ringrazia la famiglia Buccolo per la concessione delle foto)